Potrei iniziare questo articolo con la migliore delle introduzioni. Un entrare in forma trionfale nel testo per poi muovermi impercettibilmente asettico ponendomi in un punto ben distante del foglio a domandarmi:

  • Cosa cerchi di ottenere con questo?
  • Quale linguaggio vorresti proporre?
  • Verso chi ti metterai in ascolto?

Mi è capitato tante volte di scrivere di “empatia”, di “ascolto”, di “presenza” ma solo negli ultimi mesi ho pensato a quanto io abbia davvero prestato ascolto e dato autentica presenza alle storie altrui. Quanta parte di me fosse lì con loro, con mente e cuore adibiti a mo’ di salottino in cui, uno per volta, piccoli stralci di colui o colei che avevo davanti, si fermavano per raccontarsi.

Perché il Counseling allora? Proprio perché, durante un percorso di vita passato per lo più a barcamenare fra una voglia assordante di essere ascoltato ed il pormi in ascolto del prossimo, solo con l’inizio della messa in pratica dell’arte di ascoltare, ho personalmente sentito la necessità di rimanere faccia a faccia con alcune fra quelle domande sovra menzionate

Se mi avessero chiesto un tempo cosa fosse una persona empatica, avrei risposto: <<qualcuno con una capacità percettiva superiore alla media>>. Cioè, anche solo ammettendo che questa sia una risposta utile e fruibile per tutti, dov’è l’empatia in un’espressione come “superiore alla media?”. Va da sé che una risposta del genere suscita quel po’ di ilarità e di amorevole compassione verso quella che si lascia intravedere come una sottile richiesta di attenzione a metà fra il timore di non sentirsi poi così “speciali” ed il giudizio verso una “media” che, si presume, “speciale” non lo sia affatto. Interessante no?

In fin dei conti, in un’epoca in cui è in atto questo grande processo di risveglio, abbiamo tutti sentito parlare di empatia e abbiamo avuto il coraggio di commentare o etichettare quella persona per il semplice fatto che possedesse quel “dono” o meno. Lo si può osservare specialmente quando si è stati per lungo tempo dalla parte opposta della barricata in cui è molto semplice fare il tifo per sé stessi senza mai porsi il benché minimo dubbio a riguardo.

Insomma, cosa ci vuole a mettersi nei panni dell’altro? Comprenderne i sentimenti, la qualità con la quale egli osserva, vive e racconta la propria storia, le parole che utilizza, il tono della voce, le associazioni che porta avanti nel sentir pronunciare una determinata frase in un confronto privo di giudizi e assolutamente alla pari. E tutto questo, senza mai modellare sull’altro il proprio mondo. Una passeggiata vero? Forse ma:

  • Importa?
  • E se importa, perché importa?

Per i 9/10 delle volte non si ascolta per comprendere ma per portare la soluzione ad ogni tipo di problema o, forse, per pretendere di possedere la verità assoluta e sentirci a gusto con la coscienza. L’aiuto diviene allora condizionato da qualcosa di esterno, silenzioso e subdolamente giudicante.

Quando si rimane ben vigili, ci si accorge che una parte di sé è sì in ascolto, ma per i fatti propri. Il gioco è inconscio ed è molto sottile. Lo è ancor di più per chi, come me, si è trovato faccia a faccia con tale dinamica più e più volte dentro e fuori il circuito di Human Project. Ed è stato interessante scoprirlo. È stato interessante rendersi conto di come l’aspettativa che si ha verso sé stessi, pur di venir fuori e dire la sua, sia disposta a vestire i panni della brava e paziente ascoltatrice pronta a soddisfare le proprie carenze innocenti ed infantili…rivoluzionario! Non si può creare uno spazio di ascolto autentico se il “salottino della mente e del cuore” non è adeguatamente pronto.

Come si può parlare di empatia dunque, se prima di tutto non ci si sofferma ad alimentarla nei propri confronti? Farsi le domande giuste, alimentare i propri “perché”, rimanere interessati, salutarsi la mattina, chiedersi cosa si sta facendo di bello, se quello che si sta facendo crea piacere o meno e, perché no, chiedersi anche se si vuole una mano. Piccole azioni di concreta presenza, esserci in forma pratica. Ascoltare è anche voler sapere di sé prima che dell’altro, “ri – cor – darsi” della sua storia come della propria che sono uniche ed irripetibili (piccola curiosità dalla lingua portoghese: “saber de cor” = “sapere di cuore” = “ricordare”).

Dunque, ciò è un dono che richiede davvero una certa dose di compassione (nel senso positivo della parola), ottimismo, comprensione ed anche tanta flessibilità. Ma tutto ciò passa inevitabilmente per una fase infinita di continuo “accorgersi”. Ricordarsi di quella parte di sé che pone una maschera che sollecita quell’attenzione che spesso si da volentieri verso il prossimo con la speranza di poter essere poi ripagati. Specchi.

Ma perché ho deciso di parlarne? Semplice, conosco la dinamica, so cosa cerca e cosa vuole. L’altro, dunque, diviene il primo grosso indizio verso noi stessi. Lo è sempre stato e solo ora ne ho potuto parlare a cuor leggero. Anche perché se dopo il primo modulo di Counseling, si viene portati a vedersi concretamente come centro di qualsiasi cosa si crei là fuori…cosa può esserci ancor più di questo?

  • Ma ti ascolti quando parli?

Disse una voce ridacchiando fra sé e sé….

<<L’empatia non è sempre e solo un’abilità elitaria, qualcosa offerto solo per pochi, una tecnica o un linguaggio. Prima che sia anche solo parte di tutto questo, essa è uno stato dell’essere in cui ogni storia si incontra, parla di sé, risveglia altre storie e poi passa via. Uno spazio in cui le cose accadono alla pari con l’altro, in cui l’assenza di giudizio manifesta la sua natura preservando il facilitatore (che osserva la propria parte umana che vorrebbe dire la sua) e dando spazio al facilitato che è libero, finalmente, di esprimersi, di esporsi, di “essere”, con crescente fiducia, in tutta libertà e sicurezza. Nessun “mal comune”, nessun “mezzo gaudio”>>.

 

Paolo Muccio
Counselor professionista titolato presso l’Accademia Human Project
paolomuccio427@hotmail.com